Il nuovo codice minerario del Mali approvato dalla giunta golpista di Assimi Goïta, in carica dal 2021, ha drasticamente modificato gli accordi preesistenti con le compagnie minerarie che operavano nel Paese, confermando una volta di più i rischi per le compagnie minerarie occidentali ad operare in Paesi dove il terrorismo ha radici profonde: all’interno dell’Africa sub-sahariana, il Sahel è la regione più colpita e rappresenta quasi la metà di tutti i morti per terrorismo e il 26% degli attacchi nel 2023. L’anno scorso è nata la Confederazione degli Stati del Sahel (AES) costituita da Niger, Mali e Burkina Faso, un controverso progetto di decolonizzazione e riaffermazione della propria sovranità rispetto alle influenze di Paesi occidentali, come Francia e Stati Uniti, e delle organizzazioni regionali africane, come l’ECOWAS, ritenute una emanazione di tali influenze. Questa iniziativa ha provocato l’interruzione di cospicui flussi economico-commerciali, pari a circa 150 miliardi di dollari annui, rendendo imperativo per questi Paesi reperire nuove risorse per finanziare sia i loro bilanci che la lotta per contenere le insurrezioni islamiste.
Quale migliore opportunità se non rivendicare i beni delle compagnie minerarie neocolonialiste? A fronte di generiche accuse da parte del Ministero delle Miniere e di quello delle Finanze sul mancato rispetto dei termini di un accordo finalizzato a raggiungere “una più equa redistribuzione delle ricchezze” derivanti dallo sfruttamento delle risorse minerarie il Governo maliano ha sequestrato provvisoriamente le scorte d’oro estratte dal complesso minerario di Loulo-Gounkoto di proprietà di Barrick Gold Corp., il secondo produttore d’oro globale, e le ha poste sotto custodia in una banca locale. Il valore complessivo dello stock di Loulo-Gounkoto, pari a 4 tonnellate, è di oltre 400 milioni di dollari e costituisce circa un settimo della produzione d’oro stimata da Barrick per il 2025. Il sequestro è solo l’ultimo degli atti intimidatori posti in essere dalla giunta militare contro la compagnia canadese per il controllo della più grande miniera del Paese. Qualche settimana fa era stato emesso un mandato d’arresto per Mark Bristow, amministratore delegato di Barrick e uno dei nomi più influenti del settore minerario globale. Il Governo alle prese con problemi di liquidità e deciso finanziarsi rapidamente sfruttando le sue risorse naturali si è scagliato anche contro Allied Gold Corp., B2Gold Corp. e Resolute Mining Ltd. per ottenere maggiori royalties. Sommando anche la quota di Barrick le quattro società occidentali, che rappresentano quasi il 90% della produzione legale di oro del Mali, pagheranno 840 milioni di dollari destinati a salire a 1,2 miliardi entro marzo di quest’anno: oltre un sesto della spesa pubblica prevista per il 2025.
Tuttavia, con l’atteggiamento tenuto nei confronti dell’amministratore delegato di Resolute, Terry Holohan, trattenuto per più di una settimana a Bamako finché l’azienda ha annunciato di voler pagare un risarcimento di 160 milioni di dollari, la giunta sta bruciando i ponti dietro di sé. L’industria mineraria è un’industria a lungo termine che fa leva sulla stabilità: quello che sta accadendo oggi in Mali allontanerà da quel Paese le compagnie minerarie occidentali danneggiando per molto tempo l’economia del Paese anche per chi verrà dopo l’attuale giunta militare. Resta da comprendere il possibile ruolo svolto da Pechino sulle decisioni della giunta militare di allontanare dal Paese l’industria mineraria occidentale. Ma l’aggressione verso le compagnie minerarie occidentali dimostra la debolezza della giunta nel controllo del territorio, prerequisito fondamentale per gestire l’industria estrattiva “illegale”: le statistiche ufficiali rilasciate dalle autorità maliane dicono che le miniere artigianali del paese contribuiscono con una produzione annuale di circa 26 tonnellate d’oro. Un dato considerato largamente sottostimato da molti osservatori. A poco servono anche iniziative, come quelle intraprese dal governo del Burkina Faso, di chiudere i siti auriferi artigianali nel tentativo di limitare l’accesso dei gruppi jihadisti ai proventi dell’estrazione dell’oro. Nella realtà la maggior parte di queste miniere continua a operare poiché in quelle aree lo Stato non ha più il controllo del territorio. Nel caso del Burkina Faso si stima che almeno il 40% del territorio sia fuori dal controllo del regime, mentre nel Mali lo Stato Islamico (IS) ha raddoppiato la sua area d’influenza, ed il suo vero ed unico concorrente in queste aree è la Jamaat Nusrat Al-Islam wal Muslimeen (JNIM).
Inoltre, spesso i gruppi jihadisti sfruttano le chiusure forzate delle miniere, volute dalle giunte al governo, per ottenere il sostegno delle comunità locali che proprio da quelle miniere dipendono per il loro sostentamento. L’oro del Sahel centrale viene spesso contrabbandato in Togo prima di essere esportato a Dubai, dove viene fuso e integrato in operazioni di vendita di oro legale, rendendolo irrintracciabile. Le giunte militari nel Sahel non sono riuscite a contenere l’ondata di violenza jihadista e questo le ha portate ad avvicinarsi sempre di più alla Russia impiegando i mercenari dell’ex Gruppo Wagner, ora Africa Corps, per proteggere i siti minerari. Una scelta destinata a creare potenziali tensioni nei rapporti con il loro partner commerciale più significativo: la Cina.
In Mali Ganfeng Lithium, un colosso del settore minerario cinese, ha annunciato che la prima fase della sua miniera di litio di Goulamina, nella regione meridionale di Bougouni, è entrata in funzione a metà dicembre. La capacità annua prevista è di 506.000 tonnellate di litio, che saliranno a 1 milione di tonnellate nella seconda fase. Considerato uno dei più grandi giacimenti al mondo di litio, l’avvio dell’impianto di lavorazione è stato salutato da Assimi Goïta come “un significativo passo avanti nello sfruttamento delle risorse naturali del Paese”. Il Mali oltre alle risorse del metallo giallo dispone di ricche risorse minerarie di manganese, ferro e litio. L’estrazione di queste risorse richiede in genere esplosivi industriali, che il Mali attualmente importa. Qui entra in gioco la China North Industries Corporation, Norinco, un produttore cinese di armi, che attraverso la sua controllata Auxin Chemical Technology Ltd. presto aprirà il suo primo impianto di esplosivi civili nel Paese. Un progetto perfettamente in linea con gli obbiettivi della giunta secondo il ministro delle Miniere, Amadou Keïta: promuovere il contenuto locale nell’industria mineraria integrando manodopera e competenze locali nella catena di produzione per un migliore controllo sulla catena del valore delle loro risorse minerarie per maggiori benefici economici e sociali. Ma vi è anche chi sostiene che i produttori di armi cinesi, tra cui proprio Norinco, vogliano aumentare la loro quota di mercato in un momento in cui la guerra in Ucraina ha ridotto significativamente la capacità di Mosca di rifornire i Paesi africani. Ed è qui che l’”amicizia illimitata”, pubblicamente ostentata durante gli incontri ufficiali tra i presidenti Xi Jinping e Vladimir Putin, potrebbe trovare un duro banco di prova dal momento che i loro interessi sul campo sono in conflitto.
La posta in gioco per la Cina è importante e con obbiettivi profondamente diversi da Mosca che si concentra principalmente sul commercio di armi, sul sostegno militare ai governi locali e sullo sfruttamento delle risorse, attività che hanno contribuito all’instabilità nella regione. Al contrario, Pechino punta a un’Africa stabile che favorisca investimenti significativi a medio-lungo termine mentre l’Africa Corps prospera nel caos, mantenere l’instabilità è essenziale per giustificare la loro presenza: vengono assunti per sedare i disordini di cui beneficiano.Invece le società di sicurezza private cinesi cercano la stabilità per proteggere gli investimenti cinesi e garantire la crescita economica, non sono preparate a fornire servizi di sicurezza pesantemente armati come quelle russe poiché il loro ruolo è finalizzato alla salvaguardia del personale e dei beni cinesi nei paesi stranieri.
Questi due approcci, fondamentalmente diversi, alla sicurezza, finalizzati a scopi diversi, sono destinati a scontrarsi, creando ulteriori attriti mentre entrambe le nazioni si contendono l’influenza in queste regioni ad alto rischio.
Tra i Paesi che hanno registrato il maggior numero di morti per terrorismo nel 2023 il Mali si trova al terzo posto pur essendo l’unico a registrare un calo dei decessi nell’ultimo anno grazie una diminuzione del 42% dei decessi attribuiti allo Stato Islamico (IS). L’IS ha raddoppiato il suo territorio in Mali, e l’unico concorrente in alcune aree del Paese è la Jamaat Nusrat Al-Islam wal Muslimeen (JNIM).1 L’attività della JNIM in Mali è aumentata nel 2023, passando da 38 attacchi e 121 morti a 76 e 263 rispettivamente.
Giovanni Brusssato
TUTTE LE NOTIZIE SU MONDO