la logica dietro ai dazi

La recente decisione di Donald Trump di introdurre dazi di entità variabile (dal 10% al 50%) su prodotti provenienti da 180 paesi ha generato forti turbolenze nei mercati finanziari e scossoni negli equilibri geopolitici. In molti hanno definito la mossa del Presidente USA una follia, una scelta illogica che tra l’altro rischia di vanificare l’obiettivo che ha conquistato il sentimento della maggioranza dell’elettorato: riportare gli Stati Uniti a una nuova “età dell’oro”, che, per gli statunitensi, si colloca in un passato neanche troppo remoto (basta tornare agli anni ’90, successivi al crollo dell’Unione Sovietica ma precedenti all’ascesa dell’economia cinese).
In realtà, sebbene siano legittime le critiche ai parametri economici su cui sono state quantificate le tariffe, la decisione di Trump – per quanto possa apparire umorale – sottende una manovra di politica economica e geopolitica molto rischiosa ma precisa.
Il 2 aprile 2025 Trump ha annunciato dazi su beni importati da 180 paesi, con aliquote comprese tra il 10% e il 50%. In particolare, ha imposto un dazio del 20% all’Unione Europea, del 10% al Regno Unito, del 34% alla Cina e del 24% al Giappone.
Disattendendo i parametri contenuti nel Trade Policy Agenda and Annual Report of the President of the United States on the Trade Agreements Program, Trump ha promosso un criterio alternativo di determinazione tariffaria, basato sull’idea di reciprocità, pari al tasso di importazione diviso 2.
Una regola talmente rozza che ha portato ad errori clamorosi come i dazi alle isole Heard e Mcdonald sperdute nell’Oceano Antartico, dove vivono solo trichechi e pinguini.
Tuttavia, va detto che, applicando tale regola, i dazi non sono stati introdotti in modo uniformemente ‘punitivo’. Colpiscono, ad esempio, le tariffe molto contenute stabilite nei confronti di tre paesi: Brasile, Messico e Russia.
A ben vedere le motivazioni di queste eccezioni sono molteplici. Il Brasile, pur mantenendo barriere tariffarie elevate e una scarsa prevedibilità normativa, è stato colpito da un dazio del 10%. Evidente l’interesse dell’Amministrazione a destabilizzare il consolidamento della coalizione BRICS di cui il Brasile è certamente un’”azionista” di rilievo.
Altrettanto emblematico il caso del Messico: nonostante rappresenti uno dei maggiori deficit bilaterali per gli USA, ha ricevuto un trattamento ‘di favore’. In realtà, il surplus commerciale del Messico con gli Stati Uniti è compensato da consistenti deficit con altri partner globali, il che implica che una riduzione delle sue esportazioni verso gli USA verrebbe probabilmente rimpiazzata da un aumento delle esportazioni statunitensi verso altri paesi. Inoltre, la posizione geografica del Messico ha favorito per decenni l’investimento diretto estero – da parte di imprese americane, europee e giapponesi – nella produzione di componenti e beni destinati al mercato nordamericano.
Il caso più eclatante resta comunque la Russia, uscita completamente illesa dalla nuova ondata di dazi. La motivazione potrebbe risiedere nell’esistenza di sanzioni economiche già in vigore a causa del conflitto in Ucraina, ma è ben chiaro l’interesse di Trump a preservare il fragile canale diplomatico aperto con Mosca, nella prospettiva di un cessate il fuoco rapido e soprattutto l’intendimento di un asse atlantico che include l’area dell’ex URSS in un’ottica di riequilibrio delle alleanze a livello globale, con la Cina nel mirino.
Queste premesse consentono una lettura più agevole dei dazi imposti all’Unione Europea e alla Cina. Mentre i dazi verso l’Europa rispondono a una logica prevalentemente tattica, quelli comminati alle esportazioni Cinesi hanno invece una valenza strategica.
Come previsto, nei giorni successivi al 2 aprile i mercati internazionali hanno reagito con forti ribassi, a causa delle tensioni commerciali. Un risultato che rientrava nel piano della Casa Bianca: Trump puntava proprio su questa instabilità per esercitare pressione sui partner occidentali. In breve tempo, diverse delegazioni europee hanno chiesto “udienza” a Washington per negoziare una revisione del regime tariffario. Questo ha reso evidente come i dazi siano stati usati in primo luogo come leva negoziale per ricompattare gli schieramenti geopolitici.
Raggiunto questo primo risultato Trump ha quindi annunciato una sospensione temporanea di tre mesi dei dazi verso l’UE, garantendo un’aliquota minima del 10% per coloro disposti a rinegoziare i termini commerciali.
Al contrario, con la Cina è partita l’auspicata escalation bilaterale che vede ora dazi USA-Cina al 145% e Cina-USA al 125%. A ben vedere, in questo modo Trump ha potuto presentare l’inasprimento delle tariffe come una reazione necessaria, trasformando l’offensiva commerciale in una misura “difensiva” agli occhi dell’opinione pubblica.
L’operazione ha anche un significato simbolico: mostrare forza verso la Cina e, allo stesso tempo, riaffermare il controllo sugli alleati.
Mettendo insieme le scelte di politica estera degli ultimi mesi, appare chiaro che Trump abbia cercato di riaprire un canale d’influenza su Mosca – che senza troppi imbarazzi dimostra di voler cessare il conflitto in Ucraina – anche attraverso pressioni su Kiev per favorire una tregua. Tutto ciò al fine di scongiurare il rischio che la Russia diventi un satellite economico di Pechino, fattore che garantirebbe un accesso privilegiato alle sue risorse naturali. In questo senso, riportare i paesi UE a più miti consigli e alzare le barriere commerciali con la Cina otterrebbe il duplice effetto di ricompattare l’occidente e di isolare Pechino.
Ma Trump non gioca d’azzardo solo perché destabilizza ‘dolosamente’ i mercati finanziari globali. La vera scommessa del tycoon risiede nella possibilità di trasformare l’attuale tensione a livello commerciale in una leva per il rilancio del settore industriale statunitense. Considerando che il vero punto debole degli USA rispetto alla Cina è la competitività nei settori dell’elettronica e della meccanica – ambiti in cui Pechino è ormai in grado di produrre beni di alta qualità a costi contenuti, utilizzando, tra l’altro, risorse interne – è plausibile che l’amministrazione Trump intenda utilizzare il surplus fiscale generato dai dazi per finanziare politiche di reshoring produttivo.
Il focus sarebbe in particolare sul rilancio del comparto manifatturiero e, più in generale, del settore secondario, con un’attenzione specifica alla Rust Belt, da decenni penalizzata dalla delocalizzazione industriale. Gli Stati Uniti presentano oggi una fragilità strutturale nel settore manifatturiero, che per gran parte del XX secolo ha rappresentato il fulcro dell’economia nazionale. La progressiva dipendenza da fornitori esteri per componenti fondamentali – in particolare nel comparto elettronico e nella meccanica strumentale – costituisce evidentemente un elemento di vulnerabilità sistemica.
Tuttavia, il successo di questa strategia è tutt’altro che garantito. Le difficoltà incontrate da politiche simili durante l’amministrazione Biden – come la CHIPS War e il tentativo di riportare parte della produzione di semiconduttori da Taiwan agli Stati Uniti – evidenziano quanto questo piano sia rischioso. Va ricordato, infatti, che le cosiddette Bidenconomics (tra cui l’Inflation Reduction Act) hanno prodotto risultati inferiori alle attese, in termini di accrescimento sia dell’autonomia strategica che dell’attrattività degli investimenti. L’approccio trumpiano, quindi, si configura in continuità con l’amministrazione dem sul piano degli obiettivi industriali, ma con un’impostazione geopolitica più netta e orientata ad una maggiore assertività.
Un ulteriore elemento di complessità riguarda il rischio che Pechino decida di ‘dirottare’ le proprie esportazioni verso l’Europa, la quale non ha applicato alcun dazio verso la Cina. L’UE, infatti, essendo il secondo mercato di consumo globale dopo gli USA, rischia di diventare un’area di espansione privilegiata per la Cina, anche considerando che diversi partiti politici europei hanno visioni tutt’altro che anticinesi.
Se l’amministrazione americana riuscisse a reinternalizzare, almeno in parte, le catene produttive nei settori chiave menzionati, questa strategia globale potrebbe rivelarsi vincente. Si tratta, però, di un piano che necessita di una visione geopolitica di lungo periodo, di investimenti pubblici ingenti e di un ampio consenso interno – tutti elementi che non sono per nulla scontati.

Marcello Minenna
economista

 


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