L’Impero Ottomano è stato grande. Non solo per la vastità delle terre conquistate, ma per la superiorità che ha a lungo mantenuto sulle altre nazioni europee; nella metallurgia, nell’organizzazione statale, nel mantenimento delle norme igieniche, nella disciplina militare. Poi qualcosa a un certo punto smette di funzionare, l’Impero Ottomano perde per un paio di secoli l’appuntamento con la carta stampata, convinto che nulla di buono poteva venire da occidente ed al di fuori della parola di Allah. Al contrario, il Torchio di Gutenberg favorirà una formidabile circolazione delle conoscenze tra i suoi storici competitori d’occidente. Le artiglierie, i bastioni difensivi, il naviglio ottomano a poco a poco verranno superati in efficienza dalle innovazioni e dalle invenzioni dei suoi avversari. Dai balcani al nord Africa il Califfato inizierà a subire una serie di sconfitte che lo indeboliranno progressivamente. L’aver scelto l’alleanza con gli Imperi Centrali durante la I Guerra Mondiale sarà il colpo definitivo. Posto fine al Califfato, toccherà ad un despota illuminato, Kemal Ataturk, difendere le sorti di quello che ne è rimasto, la neonata Turchia. Ataturk comprende che la Turchia deve accogliere il progresso occidentale, ma lo fa per decreto: via il fez, via il velo, da oggi si cambia alfabeto. La Turchia, in questo modo, verrà trascinata a forza nella modernità da una élite militare autoritaria. Era inevitabile che la modernizzazione calata dall’alto di Kemal Ataturk dovesse trovare a gioco lungo l’opposizione di parte di quella Turchia profonda, destinata a guadagnarsi il pane sulle terre dell’altopiano mesopotamico, lontana dai sommovimenti della capitale e dall’atmosfera multiculturale dei porti mediterranei. Questa opposizione ha trovato voce in un personaggio per molti aspetti formidabile. Erdogan è figlio di un capitano di traghetto, nasce nel ‘54 in un sobborgo povero di Istanbul, vende ciambelle per sbarcare il lunario, compie studi religiosi, usa il ponte di una nave all’ancora per esercitarsi a recitare il corano. È un giovanotto alto, magro, atletico, abile con il pallone; viene chiamato da alcune squadre ma i suoi maestri di studi islamici sono contrari a che indossi pubblicamente pantaloncini corti, per converso la squadra di Istanbul in cui milita fa divieto ai suoi calciatori di portare la barba. Del resto, il giovane Erdogan ha trovato un’altra grande passione in cui dimostrerà di eccellere: la politica. La carriera di Erdogan inizierà con il partito islamista di Necmettin Erbakan. Tagliare i ponti con l’allora Comunità Europea, appoggiare i mujaheddin che combattono i russi in Afghanistan, sostenere la rivoluzione iraniana di Khomeini, allearsi ai partiti islamici del Bangladesh e del Pakistan, questi slogan troveranno terreno fertile tra l’elettorato di una Turchia che, a differenza dell’Impero Ottomano, ha i suoi confini decisamente spostati più a est, ed è ormai collocata, geograficamente e politicamente, nel sistema medio-orientale. Erdogan incarna questa nuova identità turca. Dirà: “Sono l’imam di Istanbul”, quando diventerà sindaco della città nel 1994.

Questo aspetto di Erdogan, uomo pio, fedele alla legge islamica e avversario di un Occidente “dalla mentalità crociata” è sempre stato il “parente nascosto” nelle descrizioni che nel corso del tempo sono state svolte su di lui. Invece lo straordinario successo politico di Erdogan trova una base solida in questo orientamento culturale e religioso, che permea una parte a quanto pare maggioritaria della popolazione turca. Questa “Turchia islamica” gli sopravviverà e potrebbe anche “scavalcare a sinistra” Erdogan stesso, il cui pragmatismo viene già ora accusato di scarsa purezza ideale. Il rinnovarsi di un’identità turca che trova fondamento nell’Islam politico non poteva che coincidere con il desiderio di rinverdire il suo altro grande retaggio del passato: l’impero. Sono passati solo cento anni dalla fine del Califfato, sono pochi nella coscienza collettiva di una nazione che auspica a tornare grande. Si pensi a tutti i riferimenti a Roma antica che in Italia hanno permeato la cultura fascista e le sue mire espansioniste; eppure, all’epoca erano passati circa 1.500 anni dai tempi di Roma Imperiale. La Turchia appartiene – insieme alla Cina ed alla Russia – al club di quegli Imperi Orientali che hanno perduto, in tempi diversi, il loro splendido passato e che considerano l’Occidente come responsabile della loro umiliazione. La Cina nell’Ottocento era un Paese costretto a trattati mortificanti, la Russia negli anni ‘90 ha dovuto barattare cibo con petrolio per evitare la carestia, la Turchia negli anni ‘70 era una nazione arretrata, comandata da militari corrotti. I meccanismi della globalizzazione hanno riportato il benessere in queste Nazioni e con esso il desiderio di ritrovare la passata grandezza.

La Turchia di oggi sente che “Può essere più grande dei suoi attuali confini”, per usare le recenti dichiarazioni di Erdogan. Ritornare ad essere il punto di riferimento per tutto l’Islam sunnita ed espandere la propria sfera d’influenza geografica ed economica sono due princìpi che vanno a braccetto e che hanno grande presa tra molti cittadini turchi. Tutto questo si traduce in una politica estera connotata dall’aggressività. La Turchia dei tempi recenti è andata allo scontro “fisico” tra una sua nave militare ed una nave militare greca; sempre una nave militare turca ha messo nel mirino dei cannoni di bordo il cacciatorpediniere francese “Forbin” che – nell’ambito dell’embargo sull’invio di armi in Libia – voleva ispezionare un cargo sospetto; ha impedito ad una nave petrolifera italiana (SAIPEM 2000) di fare perforazioni in un giacimento dell’ENI al largo di Cipro; ha finanziato e protetto tutte quelle organizzazioni della Fratellanza Musulmana che mirano a spodestare i governanti del mondo arabo. Ha appoggiato la guerra dell’Azerbaigian nel Nagorno Karabakh; è andata sostanzialmente a riprendersi manu militari il suo vilajet (provincia) della Tripolitania di imperiale memoria ed ha creato un teorico corridoio “zona di attività esclusiva” tra le sue coste e quelle di Tripoli che in pratica gli darebbe il controllo sui traffici di tutto il Mediterraneo orientale. Istanbul ospita gli uomini di Hamas che hanno compiuto le stragi del 7 ottobre in Israele definendoli: “uomini della resistenza”. Ha permesso che dai suoi confini passassero i militanti dell’internazionale jihadista che ora sono tra le fila dell’esercito di Al-Jolani – alias Ahmad al-Sharaa – che ha recentemente conquistato la Siria e che ha la Turchia come principale sponsor ed alleato. Della guerra intrapresa contro i curdi siriani tutti qualcosa sappiamo. Districare la storia turca degli ultimi vent’anni dalla storia personale del suo imbattibile leader, Erdogan, è sempre molto difficile. Ma non crediamo che questa storia possa essere ricondotta soltanto alla personalità di questo multiforme statista. La Turchia con cui i Paesi del Mediterraneo hanno a che fare oggi – e con cui è possibile che Israele avrà presto a che fare domani, in ciò che sarà della Siria – non scomparirà anche se dovesse venir meno Erdogan (cosa peraltro assai improbabile). Nei prossimi tempi continueremo ad assistere alla deriva di una Turchia politicamente autonoma dall’occidente e tendenzialmente ostile, che inseguirà l’obiettivo di diventare il Paese guida dell’Islamismo sunnita e ad alimentare le sue ambizioni regionali.

Virgilio Lo Presti
analista geopolitico