La battaglia in corso a Jenin – in Cis-Giordania – tra l’Autorità Nazionale Palestinese ed il cosiddetto Battaglione Jenin (una sigla che raccoglie al proprio interno diverse formazioni che hanno in statuto la distruzione dello Stato ebraico ed anche singole persone che non militano in alcuna fazione) è una notizia che fa fatica a farsi largo tra i mezzi di informazione. In realtà è un fatto importante che induce a riflettere sulle prospettive – a lungo richiamate nell’ultimo anno – di una soluzione a due Stati nella tormentata regione medio-orientale posta tra il fiume Giordano ed il mare.
All’indomani delle stragi perpetrate in Israele da Hamas ed altri gruppi della resistenza il 7 di ottobre 2023, gran parte della comunità degli analisti delle relazioni internazionali – dopo un lungo periodo in cui la Questione Palestinese era stata messa in sottofondo da altri avvenimenti mondiali – ha alzato la testa dalla propria scrivania ricolma di libri è, quasi automaticamente, ha ripetuto la formula di rito: “Due Stati per due popoli”. In particolare, la versione mainstream, caldeggiata anche da diverse cancellerie occidentali, proponeva questa volta “La creazione di uno Stato Palestinese demilitarizzato”. La battaglia intra-palestinese in corso a Jenin, se mai ce ne fosse stato bisogno, dovrebbe porre ai teorici del futuro “Stato Palestinese Demilitarizzato” una domanda ineludibile: questo futuribile Stato Palestinese Demilitarizzato chi lo smilitarizza? I professori della Columbia University? La Lega Araba? La polizia dell’ANP? Chi, insomma? I resistenti del Battaglione Jenin accusano l’Autorita’ Palestinese di essere un gruppo di traditori al servizio di Israele, non hanno alcuna intenzione di essere smilitarizzati e lo dimostrano a colpi di mitra. Al di là della Striscia di Gaza, in molte aree dei territori cis-giordani occupati da Israele dopo la Guerra dei Sei Giorni (1967), e messe sotto il controllo militare e civile dell’Autorità Palestinese, è normale vedere manifestazioni guidate da uomini (e, purtroppo anche bambini di 12-15 anni) che brandiscono mitragliatori AR-5 nuovi di zecca. Jenin è la plastica dimostrazione che non basteranno riunioni e convegni per smilitarizzare queste aree. La questione è applicabile anche alla richiesta Saudita di vedere “Un processo politico che porti alla formazione di uno Stato Palestinese”. Il termine “politico” porta con se l’odore asettico di una sala riunioni, ma la storia del confronto tra Fatah (cioè l’ANP) ed Hamas, dimostra l’incapacità delle fazioni della resistenza ad approdare ad un processo politico: le elezioni legislative palestinesi del 2006, prima ed anche ultima prova di un processo politico intra-palestinese, sono terminate come è noto a colpi di mitra e si sono risolte con il controllo di diversi territori (Hamas a Gaza, Fatah nei Territori occupati), e questa frattura non è mai più stata ricucita. La guerra a Jenin di questi giorni è lì a dimostrarlo.
Alcuni esempi storici ci suggeriscono che soltanto il tacere delle armi e lo sbandamento delle milizie può dare, non la certezza, ma la possibilità dell’avvio di un qualsivoglia processo politico. Un paradigma in questo senso può essere rappresentato dalla Questione Nord-Irlandese. Il primo passo del processo di pace fu la decisione dell’IRA del 31.08.94 di giungere alla “completa cessazione di tutte le attività militari”. Circa due mesi dopo gli unionisti inglesi del CLMC cessarono a loro volta le attività. Dovranno passare 4 anni da allora per arrivare ai cosiddetti “Accordi del Venerdì Santo”. Nel 2005 l’IRA dichiarò poi lo smaltimento di tutti i suoi arsenali. Il processo di stabilizzazione non fu lineare. Alcune formazioni dell’IRA continuarono a combattere, ma rappresentavano una quota ampiamente minoritaria all’interno della comunità nord-irlandese. Per altri versi e in tutt’altro contesto, la decisione del Partito Comunista Italiano e di tutto il CNL, nel maggio del 1945, di sciogliere le Brigate Partigiane e restituire le armi fu certamente un passo importante per il futuro della democrazia in Italia. Tutte le formazioni comuniste restituirono le armi? Certamente no. Ma i sostenitori dell’insurrezione rimasero comunque una quota ampiamente marginale all’interno del P.C.I.
I paragoni storici trovano sempre i loro limiti nella differenza delle condizioni, della geografia e del periodo in cui si sono manifestati i fatti che cerchiamo di confrontare. Ci pare però di intravedere un meccanismo che tende a ripetersi per quei processi di pace che hanno avuto un certo successo. È solo a partire dall’intenzione di togliere la parola alle armi che si può avviare un processo – normalmente di lunga durata e non sempre lineare – che porti alla pacificazione tra comunità diverse. Questo passaggio tra, diciamo così, il “pesarsi” ed il confrontarsi è una svolta obbligata.
Si guardi ai vicini di Israele, chi vuole un futuro di stabilità per il Libano chiede che il monopolio della forza ritorni ad appartenere allo Stato. Anche qui l’ostacolo ad un autentico, pacifico progresso di unità nazionale si chiama Hezbollah, e finché il Libano avrà una potente milizia armata settaria ossessionata dalla missione di distruggere Israele, non ci sarà alcun futuro dignitoso per quella Nazione. Ma, ancora una volta: chi in Libano può demilitarizzare Hezbollah? Alla luce di quanto detto, immaginare un futuro Stato palestinese che dovrebbe vivere in pace accanto ad Israele, saltando a piedi pari la questione del disarmo delle milizie che vogliono l’annientamento di Israele, rappresenta, in questo senso, o l’apertura di un libro delle fiabe o una palese dimostrazione di ipocrisia. Se si accetta la logica fin qui seguita si comprenderà anche l’inutilità dell’insistente domanda: “Ma quale sarà il giorno dopo la fine della Guerra di Gaza?”. Ebbene, finché Hamas controllerà – come attualmente accade – larghe porzioni della Striscia di Gaza, non ci potrà essere alcun giorno dopo per la Striscia perché nessuna nazione o coalizione al di fuori di Israele manderà mai i suoi uomini ad uccidere o farsi uccidere da Hamas per cercare di controllare Gaza. Ci potremo domandare cosa sarà “il giorno dopo a Gaza” solo quando Hamas a Gaza non ci sarà più; e quel giorno, se mai verrà, è ancora lontano.
Virgilio Lo Presti
analista geopolitico