Quando penso ai giovani, penso innanzitutto alla scuola e al mondo del lavoro, meglio penso ad una scuola che sia in grado di preparare i giovani al mondo del lavoro. Mi piace immaginare una scuola che dia agli studenti le conoscenze e le competenze necessarie, non solo in termini meramente “produttivi” ma anche, e forse soprattutto, in termini di competenze di umanità. Un giovane al termine del proprio percorso di studi, sia che esso comprenda o non comprenda un percorso universitario, dovrebbe avere acquisito quelle competenze indispensabili ad affrontare il mondo del lavoro: equilibrio, capacità di adattamento e di costruzione di relazioni sane, resilienza e, mi sia consentito di aggiungere, di umiltà e voglia di darsi da fare. Il lavoro, lo sappiamo, non deve diventare ragione di vita di una persona, assolutamente no, ma occasione di realizzazione personale, in un’ottica di condivisione e di corresponsabilità, assolutamente sì.

Troppo spesso, le statistiche ce lo confermano, i giovani decidono di abbandonare il percorso di studio iniziato: già prima del covid il fenomeno della dispersione scolastica aveva raggiunto percentuali preoccupanti, soprattutto in alcune aree del nostro Paese. Il covid non ha fatto altro che peggiorare la situazione, innalzando ulteriormente la percentuale dei cosiddetti NEET, ossia i giovani che non studiano e non lavorano.

Credo, pertanto, che in una situazione come quella che stiamo vivendo, caratterizzata da una guerra combattuta nel cuore della nostra Europa tra un Paese invasore e un Paese invaso e da una conseguente crisi economica legata al caro energetico, il tema della scuola non può e non deve passare in secondo piano nella tabella di marcia del nuovo Governo, in modo tale che la scuola possa finalmente tornare ad essere quello che è stata sempre, soprattutto negli anni del dopoguerra, ossia un vero ascensore sociale che ha permesso al figlio dell’operaio o dell’agricoltore di poter raggiungere titoli di studio importanti. Se l’Italia è diventata uno dei paesi più industrializzati, merito non è stato solo degli aiuti che arrivavano dagli Stati Uniti ma anche di una politica che ha creato le condizioni perché tutti i bambini e i ragazzi potessero andare a scuola e i più meritevoli proseguire fino alla laurea. Due considerazioni:

  • Il valore del merito: occorre chiarirne l’importanza, a tutti i livelli di una società veramente democratica. Molto spesso si pensa che le parole merito e inclusione siano l’una l’opposto dell’altra. Si fraintende, infatti, il significato dell’aggettivo inclusivo. Riconoscere il merito non vuol dire abbandonare i fragili, tutt’altro! Il bambino con certificazione di DSA o H ha tutto il diritto di essere premiato per merito, se raggiunge con l’impegno suo e di chi è chiamato alla sua formazione, gli obiettivi che può e deve raggiungere. Invece, in nome di un concetto errato di inclusione, la scuola ha abbassato i livelli delle richieste, omologandole verso il basso, invece di dare al singolo studente ciò di cui ha bisogno, compresa la soddisfazione di migliorare. Don Milani, del resto, diceva che compito dell’insegnante è quello di fare parti uguali tra disuguali. Non vorrei fare un’inutile dietrologia ma forse l’introduzione della scuola media unica, per come è stata interpretata (il “pezzo di carta per tutti”) ha innescato questa tendenza al ribasso nella scuola italiana
  • I governi del passato hanno creato le condizioni perché tutti potessero accedere all’istruzione, certamente, ma non hanno creato le condizioni perché l’istruzione fosse libera, ossia il genitore potesse scegliere la buona scuola pubblica – paritaria o statale – per il proprio figlio. Le scelte fatte nel mondo della scuola hanno fatto sì che i genitori italiani fossero indirizzati alla sola scuola pubblica statale: chi voleva altro, doveva e deve pagare. Certo molto è stato fatto, negli ultimi vent’anni, per scardinare il feudo dell’ideologia, per far comprendere il valore della libertà di scelta educativa sancito dalla Costituzione, ma il cammino prevede ancora l’ultima tappa, ossia realizzare l’effettivo funzionamento, secondo la L. 62/2000, del sistema pubblico dell’istruzione, formato dalla scuola pubblica statale e dalla scuola pubblica paritaria, sotto lo sguardo garante dello Stato. Quest’ultimo, ad oggi, ha sempre ritenuto la scuola come cosa “propria”, strumento inteso a formare i figli come a lui appartenenti e quindi dallo Stato stesso formati. In realtà – secondo la Costituzione Italiana e la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo – i figli sono dei genitori e l’educazione è una loro prerogativa inalienabile. Lo statalismo imperante nella scuola è funzionale all’ideologia (di qualunque colore), perché la possibilità che le famiglie educhino i propri figli secondo i propri principi, sempre nell’alveo di un servizio pubblico, cioè per tutti, è cosa altamente  pericolosa, perché crea gente pensante. Formare le menti è qualcosa di prezioso per chi intende manipolarle.
  • Inoltre, la libertà di scelta educativa è sempre stata osteggiata dalla burocrazia e dai sindacati. Questi ultimi hanno visto nella scuola pubblica statale il “postificio” a garanzia dei propri tesserati e del proprio peso politico basato sui numeri. E parliamo di posti di lavoro, in realtà, inesistenti: basti pensare che in Italia abbiamo 150.000 cattedre precarie, ovvero un esubero di docenti rispetto alle cattedre disponibili. La burocrazia ideologizzata, da parte sua, ha fatto credere alle famiglie che un allievo nella scuola statale non costasse nulla… menzogna evidente, perché è stato dimostrato, dati del Ministero dell’Istruzione alla mano, con un lavoro fatto insieme alla ministra Giannini prima e con Fedeli dopo, che lo Stato sostiene un costo di circa 10.000 annui euro ad alunno. La narrazione diffusa, invece, e generata dall’ignoranza, è che la scuola pubblica paritaria sia la scuola dei ricchi che toglie soldi alla scuola pubblica statale. E’ stato dimostrato il contrario: la scuola paritaria riceve dai cittadini solamente 500 euro per alunno, rappresentando una potente fonte di risparmio per lo Stato, nell’ordine di 7 miliardi di euro annui.

Ecco, dunque che, se si parla di giovani e lavoro, non si può non pensare alla scuola, in particolare alla riforma delle riforme, a quel cambiamento che tanto le famiglie desiderano, in modo che la scuola statale sia finalmente autonoma e la scuola paritaria sia veramente libera. E ricordo che, se l’Italia vuole far ripartire la sua economia, deve far ripartire la scuola.

Un’ultima osservazione: stiamo riflettendo sul tema della giustizia. La scuola è il luogo dove meglio si apprende il valore della giustizia grazie alle dinamiche relazionali tra pari e tra studenti e docenti. Sono convinta che una scuola veramente libera e veramente autonoma possa creare le condizioni per una rigenerazione della società, nel campo economico, dei valori, delle relazioni.

Mi auguro che queste riflessioni, unite a quelle di tutti gli altri interventi di questi giorni costituiscano un terreno fertile dal quale possano nascere proposte e azioni concrete. L’Italia ha bisogno di persone che sappiano fare proposte e di persone che le sappiano realizzare. Scuola, economia,  giustizia e politica devono essere strette in una solida alleanza: soprattutto nel tempo presente non vi sono alternative.

Suor Anna Monia Alfieri
Cavaliere al merito della Repubblica italiana
Esperta di politiche scolastiche