Partiamo, come sempre, da un’analisi della realtà: in Italia risultano circa 3 milioni di precari, 2,7 milioni di lavoratori part-time involontari e più di 2 milioni di disoccupati. Alla mancanza di lavoro si aggiungono, lo sappiamo, tante piaghe: la piaga del lavoro nero, quella dei salari fra i più bassi d’Europa, quella dei tanti lavoratori che muoiono o hanno incidenti gravi sul posto di lavoro, quella, infine, della giungla delle truffe che colpiscono chi cerca un’occupazione, con il web a farla da padrone. Siccome la disoccupazione giovanile risulta una piaga incurabile, ad essa ci si abitua o, al massimo, la si denuncia. Proviamo ad indagare il fenomeno – senza alcuna pretesa di esaustività – per individuarne le cause, ataviche, e le soluzioni, possibili.

 

Il tema giovani e lavoro è stato spesso affrontato in modo ideologico, ossia contrapponendo le soluzioni proposte ora dall’una, ora dall’altra parte politica. Occorre, invece, analizzare la questione da due punti di vista: il primo sociologico, il secondo formativo. L’aspetto sociologico riguarda due domande principali: cosa i giovani si aspettano dal proprio futuro? Soprattutto, perché i giovani si aspettano così poco dal proprio futuro? L’incertezza, il disincanto, la mancanza di una progettualità a lunga durata sono elementi che caratterizzano il pensiero dei giovani con conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti. L’aspetto formativo riguarda essenzialmente il ruolo che il mondo degli adulti ha avuto negli ultimi decenni all’interno delle due agenzie educative più importanti: la famiglia e la scuola. E’ indubbio che la crisi dei giovani sia legata alla crisi della famiglia e alla conseguente mancanza di punti di riferimento solidi e costanti nella vita. Si è detto in più occasioni che la nostra è una società senza padri. E’ vero. Molto spesso anche una società senza madri. Solitudine, forme depressive, mancanza del desiderio di un futuro migliore ne sono il risultato.

 

Parliamo adesso della scuola. Lo vado ripetendo da anni: occorre intervenire con cambiamenti strutturali, se vogliamo che essa ritorni ad essere un reale ascensore sociale, come è avvenuto durante la ricostruzione postbellica. Negli ultimi decenni, complici visioni ideologiche ed interessi di parte, la scuola è stata vista solo come bacino di voti e di tessere sindacali. Lo studente, pertanto, non è stato posto al centro. Risultato? Un sistema scolastico classista, regionalista e discriminatorio. Non solo la scuola non è più un ascensore sociale ma, peggio, rafforza le disparità e divide in due il Paese. Una fotografia che emerge chiaramente dal numero dei Neet. In termini assoluti, i giovani NEET in Italia sono 2.100.000 (siamo ai primi posti in Europa, anche la Grecia fa meglio), in aumento di 100 mila unità rispetto al 2019. Sono le regioni del Sud a presentare i dati più alti. Sicilia, Calabria e Campania superano abbondantemente la quota del 30%, seguite da Puglia, Molise, Basilicata, Sardegna, Lazio e Abruzzo con una quota tra il 20 e il 30%. E non è un caso, quanto la logica conseguenza di un pluralismo educativo minato in molte aree del Sud. In termini assoluti le Regioni del Nord contano il 37% di pluralismo educativo, contro il 4% – 5% di Campania, Calabria, Campania, Sicilia e Puglia. Ecco spiegato il motivo per il quale l’Italia arriva agli ultimi posti Ocse Pisa, con i primi posti conquistati dagli studenti della Lombardia e del Veneto e gli ultimi dagli studenti della Campania e della Sicilia. Le regioni come la Lombardia, il Piemonte, il Veneto che hanno attuato politiche scolastiche tese, attraverso il buono scuola o il voucher, a ridurre la discriminazione economica che impedisce alle famiglie di scegliere fra una scuola statale e una scuola paritaria, hanno salvaguardato il pluralismo, premessa essenziale per un sistema scolastico di qualità. Ma anche per un orientamento a favore del successo formativo.

 

Eppure gli studenti italiani costano: la spesa raggiunge ben 8.500-10.000 ciascuno, all’anno, di tasse dei cittadini. Per ideologia si è preferito spendere di più, mortificando le scuole paritarie, chiedendo a chi le frequenta di pagare la seconda volta con la retta. Davanti alla crisi molte scuole non hanno retto e hanno chiuso i battenti: si sono persi, così, presidi di libertà che andavano tutelati, esattamente come fa la Regione Lombardia che interviene con la Dote Scuola sino a 2mila euro per le fasce più svantaggiate economicamente. In questo modo si spendono meglio i soldi pubblici delle tasse dei cittadini, si garantisce un sistema scolastico libero e pluralista, funziona meglio la scuola statale, si investe su un orientamento dei nostri giovani al mondo del lavoro. Invece no: abbiamo preferito, per ideologia e idiozia culturale, spendere di più e peggio, con i risultati che sono all’evidenza.

La soluzione resta sempre la medesima: attraverso una compartecipazione dello Stato italiano, delle singole regioni e della CEI (che potrebbe, come in tempo di covid, destinare 2mila euro per gli allievi più poveri) ottenere quel portafoglio di 5.500 euro, ossia il costo di uno studente che potrebbe scegliere anche una scuola paritaria. Niente di più, niente di meno. Il covid ha chiarito che la scuola paritaria (quella dei poveri e degli ultimi) serve come la scuola statale per far ripartire il paese. In questo senso, l’appello ad un patto educativo globale deve passare, però, dall’impegno a contrastare l’attuale discriminazione economica ai danni delle classi sociali più deboli. Altrimenti tutti saremo complici e corresponsabile del tradimento dei giovani.

 

 

Un passo in più. Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un altro fenomeno: la didattica delle competenze. La scuola da luogo di apprendimento è divenuta luogo in cui si apprende a fare. Certo: è importante il saper fare, ma ancora più importante è il saper pensare. Parlare di conoscenze è stato avvertito come qualcosa di vetusto e sorpassato. Beninteso: non mi riferisco al nozionismo, mi riferisco al gusto del conoscere la letteratura, l’arte, la filosofia, la storia, le scienze, la matematica. Tutto questo è stato immolato sull’altare della competenza. Perché un diplomato presso un Istituto Tecnico negli anni Sessanta poteva vantare conoscenze e competenze in media superiori a quelle di un Diplomato di oggi? Per agire devo conoscere e pensare. Il risultato qual è stato? Che i giovani non sono più in grado di pensarsi.

 

Ancora un’altra considerazione e anche su questo fronte non voglio essere fraintesa. So bene che molte realtà aziendali sfruttano i giovani con collaborazioni a tempo determinato, con retribuzioni ben inferiori alla soglia della sopravvivenza. Occorre, però, anche essere onesti: quanti dei nostri giovani sono ancora disposti a fare la gavetta? E la colpa di questo è nostra, di noi adulti che siamo divenuti ipergarantisti. Guardiamo alla normativa scolastica: nel timore di contenziosi con le famiglie, la promozione viene spesso garantita anche quando non ce ne sarebbero i termini. Una banalità: se fino a qualche anno fa i risultati dello scrutinio finale venivano esposti pubblicamente in nome del carattere pubblico delle deliberazioni, ora, in nome della privacy e delle diverse tutele, ciò non è più possibile. E’ educativo tutto questo? Certamente no, soprattutto perché non pone lo studente davanti alle proprie responsabilità, in positivo e in negativo. Pensiamo anche alla polemica scoppiata a seguito della manifestata volontà di reintrodurre gli scritti all’Esame di Stato. E’ o non è un esame? Vogliamo o non vogliamo che i nostri giovani si misurino con una prova che li introduca alle altre prove (molto più impegnative) che la vita metterà loro davanti?

 

L’Italia ha bisogno di cittadini protagonisti di un nuovo Welfare, giovani che cessino di percepirsi solo come portatori di bisogni. Questo domanda però di abbandonare le politiche di assistenzialismo sociale dei sussidi ed investire sulla libertà. Ecco perché il danno sociale del fenomeno Neet è ancora più grave per il sistema paese. I giovani NEET sono meno propensi dei loro coetanei a partecipare attivamente alla vita sociale, culturale e politica. Se, dunque, la società (cioè noi) vuole mutare radicalmente il contesto appena descritto, se vuole che i giovani tornino a sognare il loro futuro, ecco che dobbiamo cambiare il nostro atteggiamento. Conoscenza, senso critico, impegno e responsabilità dovrebbero diventare i pilasti del nostro sistema educativo.

 

 

Suor Anna Monia Alfieri
Giurista esperta di politiche scolastiche